mercoledì 29 gennaio 2014

Ultimamente penso in rima...






LUNA CADENTE di STEFANIA TRAPANI

Dissero che arrivò dal mare.
Sulla spiaggia qualcuno dormiva, qualcun altro suonava; qualcuno accarezzava il viso della persona che amava.
Il falò di San Lorenzo accompagnava le note; le pance erano piene, le bottiglie vuote.
In cielo piovevano stelle cadenti; una parve quasi sfiorarli.
Qualcuno non se ne accorse neppure.
Qualcuno continuò a dormire.
Qualcun altro a baciare.
Giorgio socchiuse gli occhi, e riprese a suonare; pensò a quel bagliore che illuminò la spiaggia e un angolo di mare…
Fu proprio da lì, che la videro arrivare.
Un abito di seta bianco accarezzava il suo vento. La camminata leggera, i capelli color notte incorniciavano un viso talmente pallido, da sembrare d’argento.
Osservò tutti, senza parlare.
«Ciao» disse Giorgio, con emozione lieve «vuoi fumare?»
Lei lo scrutò, in modo innaturale.
Gli occhi spenti – guardava ma non vedeva – un sorriso immobile, che lasciava intravvedere i denti.
«Sei di queste parti? Non ti ho mai vista prima…»
E lei, con l’età indefinita – sembrava appena sbocciata e aver vissuto una lunghissima vita - ebbe un attimo di smarrimento.
Si guardò intorno.
Stese con grazia un braccio, in direzione del vento.
Qualcuno si svegliò, pigramente.
Qualcun altro, notandola, pensò a una sbronza pesante.
Giorgio s’innamorò all’istante.
«Come ti chiami?» ricominciò a respirare.
«Io… non so nuotare» disse senza pensare, e riprese il suo cammino in direzione del mare.
Il mattino dopo sulla spiaggia c’era gran fermento.
Qualcuno leggeva furiosamente il giornale, qualcun altro guardava il cielo o indicava il mare.
Giorgio ascoltò le voci che gli portò il vento…
Un incredibile fenomeno astrale aveva portato quel turbamento.
Per alcuni minuti la Luna era svanita dietro un velo.
Con una specie di eclissi imprevista si era nascosta da qualche parte, nel cielo.
Giorgio sorrise.
Con un sorriso leggero.
"Sì, nel cielo..."

venerdì 24 gennaio 2014

Bilancio del 2013

Ho letto Oceano Mare.
A marzo tra i miei capelli è sbucato un filo d'argento.
Sono arrivata quarta ad un concorso letterario con Portata dal Vento; pubblicato il mio secondo libro a luglio.
Ad agosto e' morto mio cugino Fulvio.
Mi sono sentita tanto felice, senza motivo, a dicembre; forse sentivo lo spirito del Natale.
Poi è morto il mio cane e la felicità se n'è andata a puttane.
Giulia ha scampato gli occhiali; Giorgia ha perso il primo dentino in un lavandino.
Ad agosto sono tornata, dopo quattro anni, in Calabria.
Ho dormito sulle onde del mare in autunno, visitato Barcellona, Palma de Mallorca e Ajaccio.
Marsiglia mi ha ricordato che in una vita passata sono stata una zingara francese.
O un corsaro marsigliese.
Ho amato Giorgio, baciato infinite volte le mie figlie, maledetto altrettante volte la crisi.
Ho visto clienti chiudere le loro imprese di costruzione, acciaierie spegnere i forni.
Troppi coetanei hanno perso il lavoro.
Alcuni per questo non possono sposarsi, altri non possono fare figli.
Ma Letta dice che il 2014 sarà l'anno dei quarantenni.
Certo, quelli del 1974 - come me - compiranno 40 anni.
Che culo.

giovedì 16 gennaio 2014

Prologo dell'antistoria d'amore che sto scrivendo (non aggiungerò altro)






Prologo



Piove.

Pioggia sottile, leggera, vapore.

...

Non piove mai abbastanza, quando serve.

Niente è mai abbastanza nella vita.
Vita infame.


Pioggia in California, miraggio d’autunno.
In sei mesi non è piovuto un giorno.
Ma proprio sull’addio, proprio…

Sull’addio.

Pioggia che non bagna.
Acqua che accarezza, che accompagna.

Piove.

Pioggia che non cela le lacrime.
Pioggia che svela.

...

Grazie pioggia.
In ogni caso, grazie.
Mi sei mancata pioggia.



                                                                            ***



La hostess al check-in si trovò davanti la disperazione fatta persona.
Una bella donna – ragazza - sui venticinque anni.
Una disperazione che non sapeva di morte, ma più di cuore spezzato.
Squadrò l’ambiguo accompagnatore accanto alla giovane donna.
Provò a immaginarlo gonfio di botte, gli occhi pesti, le labbra spaccate con un rivolino di sangue laterale.
Questo le diede sollievo.

Era lui la causa di tanto dolore.

Lei piangeva senza ritegno, e lui fingeva beatamente di dispiacersene.
Un mentitore nato.
Un altro aspirante attore arrivato a Los Angeles chissà da quale angolo del mondo, col suo bagaglio di sogni inutili.
Inutili quanto lui; anzi molesti. 


Un bel ragazzo sui trent’anni, quel mattino accompagnava la disperazione fatta donna all’aeroporto internazionale di Los Angeles: il mastodontico LAX.
Un uomo fine, a modo.
Faccia da bravo ragazzo.
Un figlio di puttana.

 
                                                                        ***



Una treccia, due trecce.
“Cade”…
Due trecce, tre trecce.
“Cade.”
Dopo un paio d’ore Giulia non aveva più ciocche di capelli da intrecciare.
Si addormentò.
Sognò di essere in volo sull’Arizona…
“Oddio, cade.”
Era stata gentile la hostess ad assegnarle proprio quel posto vicino al finestrino.
Si era augurata che lo spettacolo del Grand Canyon a perdita d’occhio le avrebbe addolcito l’uscita da quell’inferno.
Chissà se nel suo paese d’origine avrebbe ritrovato la pace.
Di certo il panorama di quei canyons tutti uguali, per centinaia e centinaia di chilometri, non le avrebbe fatto male.
L’avrebbe aiutata a distrarsi.
E lei in effetti non fece che immaginarsi sfracellata su quelle rocce, per tutta la durata del viaggio. Che non era esattamente ciò che aveva in mente la hostess, ma era sempre meglio del pensiero di quel bastardo.


Giulia si svegliò a New York per il breve scalo.
Ancora dieci ore e sarebbe tornata a casa.





mercoledì 15 gennaio 2014

La tartaruga sulla cattedra



A quindici anni, quando l’universo medio adolescenziale traslocava dall’infanzia al mondo adulto, e i corpi delle mie coetanee iniziavano a fiorire in tutta la loro freschezza, io mi preparavo ad essere ricoverata al Gaetano Pini di Milano, dove mi avrebbero ingessata dal collo al fondo schiena per un anno intero. E dovevo pure ritenermi fortunata perché con quei  sette chili di gesso mi sarei risparmiata un intervento di cinque ore alla schiena. Un intervento che se fosse andato male -  come nel caso di una vicina di casa che per qualche istante era rimasta senza ossigenazione proprio durante l’intervento che avevo scampato – mi avrebbe potuta ridurre ad uno stato più consono ad un vegetale che ad un animaletto selvatico come me.
Abbracciai la mia sciagura, rassegnandomi a rinchiudere la mia schiena e il mio seno in piena fioritura dentro un osceno involucro di gesso, che rese il mio aspetto molto simile a quello di un tronco d’albero ambulante.
Finché ero in ospedale comunque la mia situazione disgraziata mi faceva sentire moderatamente a mio agio. Eravamo tutti ragazzi sui quindici anni con gravi problemi alla schiena.
Ricordo Giorgio, per cui persi anche la testa… e Anna, Luigi, Pierluigi.
Ma una volta uscita…
Intanto provai a indossare gli abiti coi quali ero entrata in quell’ospedale e mi accorsi che a malapena si allacciavano. Mi ritrovai di colpo da acciuga a tronco d’albero. Mia madre tentò di tamponare quel mio disagio regalandomi delle tute molto costose, di marche anche ricercate, chissà con quali sacrifici, poiché non è che navigassimo nell’oro. Ed io mi consolai pensando che ok, ero un tronco d’albero, ma con degli abiti firmati.
A scuola divennero quasi tutti più gentili, ma anche quella cortesia mi procurava disagio. Ero sempre stata un tipo che non aveva mai chiesto nulla a nessuno. Tutte quelle premure mi ricordavano, anche quando per esempio avrei potuto dimenticarmene, che ero un’adolescente diversa. Non del tutto autosufficiente perché ad esempio quando per gioco qualcuno mi metteva sdraiata sulla cattedra della classe, chiamandomi tartaruga, io non ero in grado di scenderne da sola. E non ero in grado di allacciarmi le scarpe. Fortuna che avevo sempre la mia amica Michela al mio fianco, che nel primo caso rideva e poi mi aiutava a scendere dalla cattedra senza farmi ribaltare a terra, e nel secondo si prestava sempre ad allacciarmi le scarpe.
Fu un anno tremendo quello, anche perché ingabbiare un corpo che sta affrontando il più radicale cambiamento della sua vita, fu un po’ come voler rimandare l’inizio della Primavera. Osservavo le mie coetanee coi loro bei vestitini, i loro corpi che iniziavano a prendere quella dolce forma ondulata, con due graziose sporgenze in alto, una sinuosa strettoia al centro e un nuovo arrotondamento più in basso.
Io ero un tronco d’albero.
Ma quell’anno in ogni caso passò, con molti più disagi di quanti ne possa ricordare. Ad esempio in ferie, per risparmiarmi il caldo africano della Calabria (che amavo), in cui andavo una sola volta all’anno a trovare i nonni, i miei amici più cari e il mare, venni portata in montagna, in un paese di anziani e famiglie con neonati, in cui una ragazza di quindici anni sarebbe potuta morire di noia.
Fortunatamente sopravvissi.
E giunse l’agognato diciannove ottobre 1990, quando finalmente mi tolsero il gesso con una piccola sega elettrica, che al solo ricordo mi si accappona la pelle; sembrava mi aprissero in due. Ormai quel guscio faceva parte di me, interamente ricoperto di scritte, in alcuni punti divenuto molle perché non si può vivere un anno lontano dall’acqua, e quell’estate al concerto di Eros – in cui andai per far felice Michela - ne ricevemmo a secchiate.
Insomma mi tolsero il guscio e io cascai per terra.
Mica facile togliersi sette chili di dosso in cinque minuti, e poi quel guscio mi sosteneva. Non dico che mi dispiacque toglierlo, anche perché tolto il gesso mi ritrovai il corpo di una bella sedicenne pronta a conquistare il mondo – non si può fermare la primavera - però era un pezzo di me, e tutt’ora, a trentotto anni, penso che farei carte false per poterci dormire dentro un’ultima volta.
Di quei mesi ormai lontani ricordo che mi ferivano più le attenzioni eccessive che i dispetti dei miei compagni . Quell’anno fui rimandata in francese, in cui avevo 6 meno, dalla stessa professoressa che si infuriava coi compagni che chiamandomi tartaruga mi rivoltavano sul guscio, ignorando il fatto che erano proprio loro a farmi sentire una persona normale, degna dei loro dispetti.
Lei si indignava… ma non si fece scrupoli a rimandarmi a settembre!
E sarà il tempo che addolcisce i ricordi, ma io nella mia diversità ci stavo bene. Forse perché sapevo che sarebbe durata poco; certo mi creò dei disagi, però quel gesso era il mio guscio, e mi aveva anche coccolata, a modo suo.
Penso che se la mia diversità fosse rimasta permanente avrei di certo avuto una vita meno facile, ma non per questo meno felice.
Avrei sicuramente fatto di tutto per non essere compatita, che è il peggior trattamento che si possa riservare ad una persona diversa.

Stefania Trapani


Racconto pubblicato all'interno della raccolta intitolata "La forza della diversità" edita da Edizioni Montag nel Dicembre 2013.
Il ricavato delle copie vendute verrà devoluto alla Lega Italiana Fibrosi Cistica - Onlus


lunedì 13 gennaio 2014

Favola di Natale






Accadde che un giorno, poco prima di Natale, durante le esercitazioni una renna si slogò una zampa. Babbo Natale si disperò! Senza quella renna non ci sarebbe stato il Natale... Da uno degli elfi sparsi per il mondo giunse la notizia di un bellissimo cane bianco, di nome Otto, che aveva una forza tale da trainare una slitta da solo! L'Elfo Tomain, travestito da veterinario, lo aveva appena operato alla pancia: al posto della milza gli aveva inserito una bolla magica che gli permetteva di volare.
Babbo Natale si precipitò da lui. Gli chiese: "E' vero che sai trainare una slitta? Mi hanno detto che adesso puoi volare..."
Otto sorrise.
"Potrai tornare a salutare la tua famiglia ogni notte di Natale".
Otto allora chiuse gli occhi, saluto' tutti, fece un bell'inchino e volò via col suo nuovo amico buono e panciuto, la cui barba era dello stesso colore del suo mantello
.
Da quel momento i bambini, la notte di Natale, all'ombra del grande albero iniziarono a lasciare una tazza di latte, qualche carota e un osso per il buon Otto.


(Alle mie figlie Giorgia Maria e Giulia Rose, ai miei nipotini Gabriele, Paolo, Elena e Arianna, che amo con tutto il cuore.
Perché non piangano per Otto.
Perché lo lascino riposare in pace.)

Otto e 1/2: Milano 16 dicembre 2004 - 20 dicembre 2013